Se mi chiedeste come è nata la mia passione per la dietetica e la nutrizione vi risponderei che è scritta nel mio codice genetico. Infatti, magro lo sono sempre stato, fin dalla prima infanzia, ma, anche più avanti, negli anni, la situazione non è migliorata. Mi domandavano spesso: “Sei malato?” Oppure, quando volevano schernirmi, chiedevano: “Sei sicuro di mangiare abbastanza?” E così avanti attraverso l’adolescenza fino alla giovinezza. Ricordo ancora un episodio buffo accaduto quando avevo circa vent’anni. Era una bella sera d’agosto ed ero uscito di casa in compagnia di un amico, la cui unica pecca era quella di avere un fisico atletico e di essere alto un metro e novantacinque centimetri, qualità queste che mettevano ancor più in risalto la sottigliezza della mia complessione. Attirati dalla musica ci addentrammo in una delle tante feste popolari che in quella stagione fioriscono come le viole in primavera. Giunti in prossimità del palco da cui l’orchestrina suonava, la musica cessò e l’animatore della brigata annunciò a gran voce: ” Ecco il momento più atteso della serata: l’elezione del più pesante e del più leggero!” La posta in gioco era di tutto rispetto: una coppa stagionata, sei bottiglie di vino buono e una torta fatta in casa. Vidi allora comparire nello sguardo del mio famelico amico un sinistro bagliore e prima che potessi rendermene conto mi ritrovai con una spallata sulla bilancia preparata all’occorrenza. Stravinsi contro tutti i più leggeri che si fossero mai cimentati e con inaudita superiorità. Pesavo, infatti, soltanto quarantasette chili per un metro e settanta centimetri di statura. Ero praticamente una piuma. Da quel giorno ad ogni riunione di coscritti il mio amico non mancò mai di rimembrare quella “gloriosa” vincita e il suo ricco bottino. Ogni occasione per i miei amici divenne buona per inneggiare, tra frizzi e lazzi, alla mia magrezza. Crebbi così con questo piccolo complesso, quello di essere troppo magro. Ricordo anche che mia madre era disperata perché ogni volta che si trattava di acquistare qualche indumento doveva chiedere alle commesse dei negozi di abbigliamento nei quali entravamo se avessero anche il reparto per “bambini”, visto che in quello per adulti non c’era verso di trovare una taglia giusta per me. Per non dire poi di quella conoscente di famiglia, donna di campagna, abituata alle corporature atticciate dei suoi cinque figli, che ogni volta che passavo in bicicletta dalla sua cascina, qualunque fosse il momento della giornata, mi obbligava a fermarmi e mangiare, come se fossi anoressico o che, chissà per quale strana pratica esoterica, a casa mia fossi costretto a digiunare, non si sa per quale ragione. Iscrittomi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, giunse il momento di sostenere anche il temuto esame di anatomia umana normale. Ricordo che il professore che m’interrogò mi chiese, dapprima gelido: ”Mi parli dell’aia cardiaca (area del torace su cui si proietta l’immagine del cuore)…” e poi, guardandomi con un sorrisetto sardonico, soggiunse: “…che in un soggetto come Lei potrebbe essere visibile ad occhio nudo”. In altri termini il professore intendeva dire che apparivo tanto magro da sembrare trasparente in controluce. Soltanto dopo che varcai la soglia dei ventitré anni, cominciai ad osservare che questo mio singolare aspetto veniva riguardato più con curiosità che con derisione e, talora, perfino con ammirazione, se non addirittura con invidia. Qualcuno arrivava perfino a dire: “I magri sono duri a morire!” Questo e altre simili espressioni fecero nascere in me un certo senso di orgoglio per la mia taglia e tutto mutò allorché qualcuno disse: “Col fisico che ti ritrovi dovresti fare il dietologo.” Stavo seguendo, infatti, i miei studi di medicina e nacquero così le prime curiosità scientifiche. Volevo capire quali fossero le cause che spingevano gli individui a diventare grassi e soprattutto perché, ora che prestavo più attenzione al mondo, ci fossero tante persone grasse. Fu così che, ancora semplice studente di medicina, decisi di iniziare a frequentare il padiglione polichirurgico “Monteggia” dell’Ospedale Maggiore di Milano, attirato dall’aura di prestigio che da sempre circonda la chirurgia. Conseguita la laurea, mi sono iscritto alla Scuola di Specializzazione in Chirurgia pediatrica che occupava un reparto adiacente alla Divisione di Chirurgia della grande obesità. Ricordo ancora che quando non ero impegnato dalla frequenza nel mio reparto seguivo quelle appassionate lezioni nelle quali i professori e loro assistenti illustravano l’importanza di trattare chirurgicamente la grande obesità, gravata com’è da complicanze respiratorie, cardiovascolari, metaboliche, ossee e articolari (senza sottovalutare inoltre la maggiore incidenza nell’obesità femminile di tumori della sfera genitale). Di quel primo periodo di studio e pratica professionale mi è rimasta impressa nella memoria la difficoltà nell’accettare che un individuo potesse raggiungere un così grave stato di obesità da risultare curabile esclusivamente mediante il ricorso all’intervento chirurgico. Non di rado accadevano scenette tragi-comiche che avevano per protagonisti pazienti del peso di circa duecento chili, giunti in ospedale per affidarsi alle nostre cure. Gli sventurati, infatti, restavano assai spesso intrappolati all’interno del veicolo col quale erano arrivati e dovevano essere tratti a forza, come pachidermi dal serraglio, tra chi spingeva e chi tirava al suono di: Oooh! Oooh! D’altro canto il trattamento chirurgico dell’obesità è appannaggio esclusivo delle forme più gravi di malattia e si sostituisce al trattamento medico solo quando questo ha fallito o risulta improponibile di fronte alla necessità di cali ponderali elevati in tempi ristretti al fine di ridurre drasticamente e definitivamente l’eccessivo peso corporeo e con esso le sue complicanze. E’ maturata allora la profonda convinzione che fosse indispensabile mettere a punto, non un singolo rimedio, bensì una articolata e complessa strategia di intervento che impedisse al paziente di arrivare fino al trattamento chirurgico. Molti pazienti, infatti, se fossero stati curati per tempo e con un approccio multidisciplinare, non sarebbero diventati né grandi obesi, né tanto meno candidati all’intervento chirurgico. Ho trasferito quindi l’asse dei miei interessi sul versante medico e ho scoperto con mia grande meraviglia che anche il trattamento farmacologico dell’obesità non era sicuramente scevro da pericoli. I numerosi effetti collaterali legati all’impiego dei farmaci ne rendevano impossibile l’utilizzo a lungo termine. Così, forte delle mie conoscenze nel campo della nutrizione e delle piante medicinali, ho elaborato un protocollo di trattamento sia del sovrappeso che dell’obesità che ha fatto la fortuna del mio programma fin dal 1988.